Il linguaggio non è solo un mezzo di comunicazione, ma uno strumento che può includere o escludere, valorizzare o limitare. A dirlo non è solo il buon senso, ma anche la scienza. È quanto emerge dalla ricerca “Il linguaggio inclusivo tra resistenze e cambiamenti”, coordinata dalla professoressa Claudia Manzi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, in collaborazione con Diversity & Inclusion Speaking e con il supporto del Gruppo Mediobanca.
L’indagine -basata su un mix di focus group e survey condotte su oltre 1.100 partecipanti- ha messo in luce un dato cruciale: il rifiuto o l’accettazione del linguaggio inclusivo dipendono per il 30% da fattori emotivi, come l’ansia o la paura di sbagliare, più che da una reale opposizione di principio.
Perché si resiste al linguaggio inclusivo?
Il rifiuto di un linguaggio più inclusivo non nasce solo dalla difesa della tradizione o dalla volontà di non aderire a nuove regole. Secondo la ricerca, molte persone vedono il tema come complesso, poco naturale e persino fonte di ansia. C’è la paura di sbagliare, di essere giudicati o di perdere la propria identità linguistica.
Le differenze tra i gruppi sociali sono significative: donne e persone appartenenti a minoranze risultano più competenti e propense all’uso del linguaggio inclusivo rispetto agli uomini e ai membri di gruppi di maggioranza e, inoltre, mostrano maggiore curiosità e apertura nel rimanere aggiornati su questi temi.
Empatia e formazione: le chiavi per il cambiamento
Se l’ansia e le false credenze sono i principali ostacoli, la soluzione non può essere un approccio puramente prescrittivo, del tipo “questo si dice, questo no”. Il cambiamento passa dalla promozione dell’empatia e dalla costruzione di una consapevolezza più ampia sugli effetti delle parole. Parlare in modo inclusivo non significa solo rispettare le linee guida di un vademecum, ma comprendere come le parole plasmano la realtà lavorativa e sociale.
L’adozione del linguaggio inclusivo in azienda, infatti, ha effetti concreti e documentati: migliora la motivazione, rafforza il senso di appartenenza e incrementa le performance. Un ambiente in cui tutti si sentono rappresentati è un ambiente più produttivo, innovativo e orientato alla crescita.
Dai dati all’azione: il progetto Words
Per trasformare la teoria in pratica, la ricerca ha testato diversi strumenti di formazione sul linguaggio inclusivo. Il più efficace è risultato essere “Words. Cosa significa parlare inclusivo”, un libro curato da Alexa Pantanella e pubblicato dal Gruppo Mediobanca. Rispetto ai semplici manuali di linee guida, la lettura di Words ha migliorato del 19,8% gli atteggiamenti positivi verso il linguaggio inclusivo e ha ridotto l’ansia da errore, soprattutto tra gli uomini.
Questo studio dimostra che, per favorire una cultura linguistica più inclusiva, non basta fornire istruzioni rigide: serve un approccio che riduca l’ansia, sfati i falsi miti e promuova la consapevolezza dell’impatto delle parole.
Donne e inclusività: un impegno per il futuro
Per le Donne del Retail, il linguaggio inclusivo non è solo una questione di parole, ma di equità e opportunità. Creare ambienti di lavoro più aperti e inclusivi significa abbattere le barriere che ancora esistono per le donne e per tutte le categorie meno rappresentate nel mondo del business.
Questa ricerca ci ricorda che le parole contano, soprattutto quando si tratta di creare un cambiamento culturale duraturo. Ora sta alle aziende scegliere se essere parte del problema o della soluzione.
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